Accompagnata da Luigi Serafino Gallo, presidente dell’Associazione Quaranta Martiri, mercoledì 3 aprile sono andata in località Polveracchio: si tratta di un pianoro sommitale a 865 m di altitudine, poco al di sotto della vetta del Monte Mitoio (m1003 s.l.m.). Vi si arriva dopo aver oltrepassato l’abitato di Acquafredda, frazione montana di Sambiase, ora di Lamezia Terme. La località è nota nella letteratura scientifica per il ritrovamento casuale il quel luogo nel 1959 di un importantissimo tesoretto di monete di argento, il più antico fra quelli ritrovati finora databile intorno al 520 a.C.
Il mio interesse a osservare da vicino questo pianoro era motivato dal desiderio di rendermi conto perchè quel luogo fosse stato scelto per nascondervi il tesoretto. A soddisfare la mia curiosità è stata la felice circostanza di aver potuto fare una lunga chiacchierata col signor Giuseppe Rocca, che aveva visto passare la macchina di Luigi Serafino Gallo e ci ha raggiunti con la sua sul pianoro, di cui è proprietario. Il signor Rocca è un novantenne che mantiene un’ottima forma fisica, asciutta e ancora agile, una mente lucida e una gran voglia di raccontare di fatti e luoghi di sua esperienza diretta, ma è anche memoria storica delle vicende che hanno lasciato traccia nei toponimi dei luoghi circostanti, vicende del passato non troppo lontano risapute e tramandate dagli anziani da una generazione all’altra.
Il pianoro porta il nome di Polveracchio perché esposto a tutti i venti, che sollevano nugoli di polvere anche quando, in primavera, è ricoperto di erba e fiori variopinti. È un punto di massima visibilità sulla piana lametina; infatti domina dall’alto, per tutta la sua estensione, l’intero arco del golfo di S. Eufemia fin oltre Pizzo, Vibo, Capo Vaticano, con l’Etna e le Eolie oltre la linea di costa; all’interno dell’arco costiero si distingue nettamente la grande valle dell’Amato, dalla foce alla sella di Marcellinara, con le colline e i paesi della riva sinistra, Maida, Curinga, Girifalco, e con le montagne della riva destra, il Monte Tiriolo, il Reventino, e poi tutta la città di Lamezia con i quartieri di Nicastro e Sambiase. Spostandosi sulla piccola vetta retrostante, affacciata ad occidente sulla valle dello Zinnavo, la visuale si allarga verso nord fin oltre Gizzeria e Falerna e al terzo monte dell’arco costiero, il Mancuso. La capacità di avere una visuale a 360 gradi spiega perché a Polveracchio fosse stata a lungo piantata una grande antenna di qualche ponteradio, ora rimossa. Un luogo, dunque estremamente panoramico, da cui si poteva scrutare tutto il territorio circostante e avvistare qualsiasi imbarcazione navigasse all’interno del golfo. La definizione di “colle dell’infinito” che gli è stata attribuita rende bene l’idea.
Insistendo sul Monte Mitoio, dall’età bizantina (IX sec. d. C.) questa località rientrava, come tutto il monte e il suo contrafforte meridionale del Sant’Elia, nelle proprietà dell’Abbazia dei Quaranta Martiri, di cui mi sono a lungo occupata un ventennio fa. Queste proprietà (come quelle di tutti i monasteri calabresi ) erano confluite nella Cassa Sacra dopo il terremoto del 1783, erano state divise in lotti e per la maggior parte vendute a privati (di proprietà demaniale qui era rimasta l’area di Bosco Difesa per gli usi civici del comune di Sambiase, ora di Lamezia Terme, di recente sistemata a Parco). Delle compravendite più recenti di alcuni di quei lotti lo stesso Giuseppe Rocca è stato parte in causa e attendibile testimone diretto. Ma è stato anche materialmente artefice del ritrovamento del tesoretto. Lo troviamo abitualmente citato come tesoretto “di Sambiase”, o “di Acquafredda”; è conservato nel Museo Nazionale di Reggio Calabria, ma lo possiamo ammirare anche nel nostro Museo Archeologico Lametino, nelle fedelissime copie in argento realizzate a suo tempo, su autorizzazione della Soprintendenza archeologica calabrese, dall’orafo Eugenio Rocca.
Il ritrovamento era avvenuto nei pressi del bordo meridionale del pianoro. Giuseppe Rocca, all’epoca ancora giovane, ci racconta di essere andato col padre Francesco e con un cognato a fare un carico di pietre con un carro per una costruzione che avevano in corso. Era suo compito, per abilità consolidata, spaccare con un po’ di polvere (dinamite) un grosso masso di pietra addossato ad un altro ancora più grande presente sul bordo del campo. La deflagrazione aveva avuto il suo effetto, ma aveva anche fatto saltare in aria e in ogni dove un gruzzolo di monete d’argento in ottimo stato di conservazione, che doveva essere stato nascosto all’interno di una cavità del masso più grande, resa visibile dallo scoppio, in una sacca di cuoio scuro ridotta a brandelli dall’esplosione.
Giuseppe Rocca racconta che raccolsero una dozzina di monete e l’immagine che gli è rimasta impressa è quella del cavallo alato (il mitico Pegaso che contrassegnava le monete di Corinto); il ritrovamento fu denunciato a nome del padre e del cognato (che sarebbero stati poi i soli a ricevere il premio di rinvenimento), in seguito furono fatte ulteriori ricerche sul sito e ritrovate altre monete (si recuperarono in tutto 56 stateri di Sibari, tre di Corinto e un panetto d’argento di gr. 57, 70), ma quelle schizzate più lontano per l’esplosione o finite in qualche cespuglio furono trovate in tempi diversi da pastori e andarono così disperse. La scelta di Polveracchio come nascondiglio per un gruzzolo di così grande valore si spiega dunque per la funzione strategica come punto di vedetta e di controllo di tutto il territorio circostante, sia in direzione delle aree montane interne (verso Martirano, San Mango e il Savuto) sia in direzione della piana e di tutto il golfo, che quel sito aveva per gli Enotri che vivevano in questa area all’epoca dell’occultamento del gruzzolo. Per testimonianza del più antico scrittore greco di storia e di geografia, Ecateo di Mileto vissuto proprio all’epoca a cui risale il tesoretto (seconda metà VI secolo a.C. e primi decenni del V), sappiamo che si chiamavano Lametinoi gli Enotri che abitavano nella regione dell’Amato. La presenza sul pianoro di un grandissimo masso rappresentava il segnacolo adatto per nascondervi il gruzzolo, che evidentemente i proprietari non sono più stati in grado di recuperare.
Queste mie conclusioni hanno trovato ulteriori conferme in quanto ho ancora appreso da miei due informatissimi interlocutori. Per quanto si arrivi a Polveracchio attraverso una strada impervia, oggi asfaltata, il luogo è stato frequentato abitualmente dai proprietari per le coltivazioni piantate in esso e dai pastori con le loro mandrie ovine, ma era anche luogo di transito per chi avesse bisogno di raggiungere luoghi vicini. Infatti da lì si diramano anche altri percorsi: un bivio consente di accedere, salendo ancora un po’ di quota e poi discendendo sul versante nord-occidentale, alla località Le Monache, che dicono avesse assunto questo nome dopo che c’era stato allocato in un imprecisato periodo di guerra un ospedale da campo con infermiere. Si raggiunge da lì un’altra località ancora, denominata Cesina, ci spiega Rocca, per la grande strage di briganti e “greci” che vi avevano fatto i francesi (“greci “venivano chiamati gli Albanesi insediati in Calabria e il riferimento in questo caso è agli abitanti del comune di Gizzeria, separato dal Mitoio dal corso dello Zinnavo). Le grotte nelle montagne del Sant’Elia e del Mitoio sono numerose e hanno offerto in ogni tempo riparo ai pastori e ai briganti.
Di questo racconto di Giuseppe Rocca ho trovato una inaspettata conferma nella Nota storica sulla Calabria di Auguste de Rivarol, pubblicata in francese a Parigi nel 1817, da Rubbettino proposta nel 2007 nella traduzione italiana di Saverio Napolitano. Durante il decennio francese, il de Rivarol era stato di stanza in Calabria tra il 1809 e il 1812 come aiutante maggiore del reggimento di Isembourg agli ordini il generale Manhès, al quale Gioacchino Murat aveva assegnato il compito della repressione del brigantaggio. Una lettura utile questa Nota storica, perché il de Rivarol non propone un semplice racconto delle sue memorie, ma piuttosto prova a dare un quadro complessivo della Calabria del tempo nella sua realtà geografica, economica, socio-politica e diremmo oggi antropologica, asciutto, breve, senza fronzoli come si addice per sua stessa ammissione ad un militare di carriera che non presume di avere capacità di narratore, spesso duro e amaro per il lettore calabrese d’oggi (come duri sono anche i giudizi che esprime nei confronti di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat), ma per ciò stesso meritevole di riflessione perché frutto della valutazione di un testimone oculare colto e acuto.
Ebbene, per tornare al nostro Polveracchio, questo toponimo non vi figura, naturalmente, ma sono menzionati il bosco di Sant’Eufemia e il monte Mitoio. Nel capitolo 4 dedicato a temperatura ed epidemie, il de Rivarol dedica una lunga nota al bosco di Sant’Eufemia, che dice «più noto per il nostro scontro sfortunato con gli inglesi» (con riferimento alla battaglia di Sant’Eufemia o di Maida, come la definisce altrove). Un bosco che « è stato in ogni tempo temibile per l’asilo che offre al brigantaggio e per i perfidi miasmi che esala. É una superficie delimitata dal fiume Amato, dal massiccio del Mitoio, dal mare e dalle montagne di Serrastretta». E aggiunge: «La banda del capo brigante Benincasa vi stabilì per lungo tempo i suoi quartieri invernali » e quando ne racconta la morte mentre cercava di fuggire attraversando l’Angitola in piena, precisa che era il capo della banda di San Biagio. Precisa inoltre: «Il torrente conosciuto col nome di Bagni taglia in due il bosco [ di Sant’Eufemia] e scende dalle pendici del Mitoio», e sul Mitoio inquadra un altro episodio che ebbe per protagonista un altro brigante, Carmine Antonio, che imperversava su Nicastro e dintorni.
La sua banda aveva assalito di notte «un piccolo villaggio [Acquafredda?] sulle pendici del Mitoio, una montagna che divide la piana di Sant’Eufemia, dove era stato distaccato un sergente con pochi uomini». Un soldato francese nella precipitosa ritirata era rimasto ferito e cercò scampo nella prima capanna che riuscì a raggiungere. Il calabrese che lo aveva accolto lo spacciò per suo fratello moribondo quando i briganti setacciarono tutte le capanne, e la mattina dopo col permesso di Carmine Antonio lo trasportò su un mulo a Nicastro dov’era di stanza il suo battaglione. L’episodio è raccontato nel capitolo sul carattere dei calabresi, a conferma – rispetto a tanti aspetti negativi – dell’ospitalità, delle premure e della costanza di affetto che i francesi hanno potuto sperimentare «in certe famiglie».
Dunque, della presenza dei briganti e dei conflitti armati con i francesi che si erano verificati sul Mitoio si conserva tra la gente del luogo una memoria veritiera e Giuseppe Rocca ce ne ha fornito un racconto essenziale.