La Festa dell’Europa, che si celebra il 9 maggio in memoria del giorno del 1950 in cui Robert Schuman presentò il piano di cooperazione economica, ideato da Jean Monnet ed esposto nella Dichiarazione Schuman, dando inizio al processo di integrazione europea, ripropone la domanda su dove stia andando oggi l’Europa all’interno di quell’Occidente di cui è stata e resta fulcro identitario. In risposta a questo interrogativo – reso ancor più attuale dall’approssimarsi delle elezioni per il Parlamento di Strasburgo – sono state avanzate le interpretazioni più diverse: subito dopo la prima guerra mondiale Oswald Spengler aveva usato la categoria di «tramonto» per evocare le tendenze dissolvitrici della modernità occidentale, in cui le due anime del Faust, la tecnica e la tragica, si sarebbero polarizzate a scapito della seconda, con l’esito di ridurre l’uomo a oggetto e aprire la strada alla violenza, messa poi in atto dai sistemi ideologici (Il tramonto dell’Occidente, Parma 1991). Hans Blumenberg aveva invece utilizzato la metafora del «naufragio» (Naufragio con spettatore, Bologna 1985) per contrapporre alla sicurezza, propria della condizione «classica», certa di punti di appoggio da cui guardare la scena del mondo come uno spettatore assiste dalla terra ferma a un naufragio, la situazione prodotta dalla parabola della modernità, in cui ogni sicurezza appare perduta e l’uomo è al tempo stesso naufrago e spettatore del suo naufragio. Il sociologo Sygmunt Bauman ha descritto questa condizione, oggi ampiamente diffusa, come «modernità liquida», dove «modelli e configurazioni non sono più “dati”, e tanto meno “assiomatici”; ce ne sono semplicemente troppi, in contrasto tra loro e in contraddizione dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è stato spogliato di buona parte dei propri poteri di coercizione» (Modernità liquida, Roma-Bari 2002, XIII). Nei processi evocati da queste letture l’attenzione al contributo offerto dalla tradizione ebraico-cristiana al formarsi dell’identità europea è andata oscurandosi. Anche per questo i Papi degli ultimi decenni hanno insistito sulle «radici cristiane» dell’Europa, senza le quali essa non sarebbe concepibile né potrebbe sostenersi l’aspirazione a una comune «patria europea». Così Papa Francesco, ricevendo i capi di Stato e di governo dell’Unione Europea alla vigilia della celebrazione del sessantesimo di essa (24 marzo 2017), ha affermato: «All’origine della civiltà europea si trova il cristianesimo, senza il quale i valori occidentali di dignità, libertà e giustizia risultano per lo più incomprensibili». E questo perché l’Europa «è una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere o di pretese da rivendicare. All’origine dell’idea d’Europa vi è la figura e la responsabilità della persona umana col suo fermento di fraternità evangelica».
Il futuro dell’Europa, insomma, non può prescindere dalle sue radici etiche e spirituali, le sole a poter alimentare una rinnovata passione morale e un impegno condiviso. Giovanni Paolo II lo aveva più volte ribadito: «L’anima dell’Europa rimane unita, perché vive gli identici valori cristiani e umani, come quelli della dignità della persona umana, del profondo sentimento della giustizia e della libertà, della laboriosità, dello spirito d’iniziativa, dell’amore alla famiglia, del rispetto della vita, della tolleranza, del desiderio di cooperazione e di pace, che sono le note che la caratterizzano» (Discorso a Santiago de Compostela, 9 novembre 1982). E Benedetto XVI aveva concluso il suo importante discorso al Collège des Bernardins a Parigi con queste parole: «Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura» (12 settembre 2008). Peraltro, nessun altro soggetto della storia europea al pari della Chiesa può farsi portavoce in maniera così vasta e capillare della vocazione e missione del Vecchio Continente e a nessun altro, come a essa, i popoli dell’Europa possono guardare come a un riferimento morale, rimasto più che mai rilevante dopo il tramonto delle ideologie e la crisi dei modelli etici in Occidente. Il richiamo alle «radici cristiane» è tutt’altro che un invito nostalgico a ritrovare nel passato la risposta per le inquietudini del presente: ciò che urge è rilanciare la grande ispirazione della cultura europea, legata da una parte all’idea di «persona», base di ogni affermazione del valore assoluto dell’essere umano, dall’altra alla concezione della storia come aperta verso un progresso possibile e orientata verso una meta sperata, sempre bisognosa di un’etica fondata su quella solidarietà e reciprocità, che il comandamento nuovo dell’amore richiede. Sono queste le radici che hanno suscitato innumerevoli storie di fede e di operosità nei più svariati contesti della terra europea, da San Benedetto da Norcia ai Santi Cirillo e Metodio, da San Francesco d’Assisi ai «folli di Dio» della spiritualità russa. Queste stesse radici motivano oggi il rifiuto di ogni atteggiamento passivo e rinunciatario di fronte alla crisi in atto, come di ogni «sovranismo» egoistico, oltre che l’assunzione di responsabilità per costruire col contributo di tutti la «casa comune europea»: farne memoria, lungi dall’essere abdicazione rispetto alle urgenze del presente, è profezia di futuro.
(l’autore è arcivescovo di Chieti-Vasto)