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Laureati in fuga dall’Italia: tutti i numeri di un’emergenza nazionale

L’analisi di due studenti italiani ad Harvard che mette insieme le statistiche su chi fugge dal nostro Paese. E smentisce molti luoghi comuni.

Di Gaia Van Der Esch e Tommaso Cariati


Avere un figlio all’estero, con il quale si comunica via Skype, via Whatsapp. È ormai una consuetudine per molte famiglie italiane che prendono atto dell’assenza di opportunità di carriera in Italia e accettano la dipartita, con grande sofferenza, al punto che molti italiani sono più preoccupati per i propri ragazzi che emigrano, anziché dell’arrivo di migranti. Conferma l’osservatorio European Council on Foreign Relations, il primo think tank paneuropeo per la ricerca e promozione di un dibattito informato a favore dello sviluppo dei valori europei, che più della metà degli italiani sarebbe a favore di misure di controllo sull’emigrazione. Allora perché i nostri politici, giornalisti ed esperti si preoccupano di chi arriva anziché invece porre un argine all’esodo di massa dei giovani?

Ad andarsene sono tantissimi giovani ad alto potenziale, con qualifiche accademiche elevate, per nulla valorizzati in patria, ma apprezzati all’estero. Sono specializzati in tutti i settori, provengono da tutta Italia, poco più della metà trova casa in Europa, gli altri migrano negli Stati Uniti e in Australia.

Difficile stabilire con esattezza quanti siano. I dati Istat dicono che nel 2018 sono partiti 117mila italiani di cui 30mila laureati. Ma in base all’analisi da noi effettuata il volume degli espatri potrebbe essere addirittura doppio. Infatti l’Istat, che utilizza i dati Aire, cioè l’anagrafe degli italiani all’estero, sottostima almeno della metà i numeri di chi parte. Prova ne è il fatto che nel 2017, per i 36 paesi Ocse, l’Aire ha registrato 76mila partenze, mentre i paesi di arrivo hanno registrato 146mila italiani. Quindi, seguendo questa logica, i giovani laureati partiti nel 2018 sono almeno 60mila, e quelli partiti negli ultimi 5 anni (tra il 2013-2018) sono 200mila al netto degli arrivi.

Se uniamo i dati del report sui cittadini mobili, con i dati dell’Ocse sul contingente di italiani lavoratori nelle 36 economie più grandi, scopriamo che ci sono più di 600 mila laureati attualmente vivono e lavorano in questi 36 paesi. Sono circa il sei per cento di tutti i laureati italiani: una percentuale altissima se paragonata alla Francia (quattro per cento) o alla Spagna (due per cento).

Il Rapporto Italiani nel Mondo 2019 della Fondazione Migrantes riporta, utilizzando principalmente dati Istat, che il 40 per cento di chi è partito nel 2018 ha fra i 18 e i 34 anni. Ma anche che questo dato sta peggiorando con un aumento di 8,1 punti percentuali delle partenze 18-34, mentre nello stesso periodo tutte le categorie di età over 35 sono diminuite. Questi fattori contribuiscono al generale invecchiamento della popolazione italiana.

Il problema diventa ancora più grave ci si concentra sui laureati. Dice l’Eurostat, l’agenzia statistica dell’Unione Europea, che in Italia solo il 17 per cento della popolazione ha una laurea, percentuale di gran lungo inferiore alla media Ue, che si aggira attorno al 30 per cento. Significa che mancano all’appello almeno sette milioni di laureati rispetto agli altri paesi europei.

E come se non bastasse, molti di coloro che conseguono il titolo di studio lasciano l’Italia. Infatti il report sui cittadini Europei in movimento dentro l’Unione, racconta che il 30 per cento degli italiani all’estero ha una laurea. Stiamo quindi perdendo una grande fascia di chi può far crescere il nostro paese, di chi sa innovare, di chi può contribuire, con le proprie energie e competenze, a tirare fuori l’Italia dalla spirale di crisi – economica, demografica, educativa e occupazionale – in cui si è avviluppata. Le competenze italiane vengono invece sfruttate dai paesi in cui i giovani emigrano.

Siamo partiti in cerca di opportunità e responsabilità

Gli expat sono partiti per tanti motivi. Oltre allo studio, c’è chi parte per trovare lavoro (62 per cento), per avventura (13 per cento), per amore o motivi personali (6 per cento). I dati parlano chiaro: l’Italia è un Paese dove i giovani non si sentono valorizzati come risorsa, e si organizzano per fare (spesso a malincuore) le valigie alla ricerca di un futuro migliore.

Quello che spinge all’emigrazione non è la ricerca di un lavoro qualunque, perché qualcosa (anche se non quello che vogliamo) si trova a casa, bensì un’occupazione degna. Con un guadagno, delle prospettive e delle responsabilità in linea con il valore e l’investimento in formazione da parte delle famiglie e dei giovani. Chi se ne va non riesce a vedere futuro in un paese che accetta – secondo Eurostat – che oltre il 20 per cento dei suoi ragazzi fra i 15 e i 24 anni non faccia nulla: né studia né lavora. Un numero molto più alto rispetto agli altri paesi europei.

Altri partono per curiosità e ambizione, in cerca di occasioni di sviluppo personale che l’Italia non offre. Chi termina gli studi, infatti, sente l’esigenza di sfruttare ciò che ha imparato e di apprendere qualcosa in più, di lavorare in un ambiente stimolante, con colleghi all’altezza e risorse che offrano una prospettiva di carriera.

Il Paese delle università più antiche al mondo non ha neppure una propria università nella top 100 delle università mondiali, secondo i ranking di QS.

Le opportunità di avere successo come imprenditore, nel paese delle piccole e medie imprese, sono praticamente nulle. Il famoso fondo di venture capital, Atomico, scrive nel suo report annuale sulle startup europee che ci sono 99 neonate società con un valore di più di un miliardo di dollari – le cosiddette “unicors” -, ma nessuna di queste si trova in Italia. Sono in Estonia, Ucraina, Romania, Repubblica Ceca, ben due in Spagna. Ma zero in Italia. L’Italia investe in ricerca l’1,3 per cento del proprio pil, il prodotto interno lordo, sorpassata da Repubblica Ceca e Slovenia. Il nostro paese ha tagliato la spesa per la ricerca del 21 per cento tra il 2006 e il 2016, secondo il Libro Bianco realizzato dal Gruppo 2003.

Siamo partiti per vivere in società giuste e per giovani
Appena arrivati all’estero molti expat hanno trovato una società dove essere giovani è un valore aggiunto. Per capirlo, basta guardare gli investimenti che i paesi fanno in educazione e in pensioni: secondo Eurostat, per ogni euro speso in educazione, l’Italia ne spende 3,5 in pensioni, il secondo numero più alto d’Europa (questa volta il primato ce l’ha la Grecia). E per ogni euro in università, ne spende 44 in pensioni, di gran lunga il numero più alto. I cugini francesi ne spendono 22. I nonni, senza volerlo o saperlo, stanno facendo la guerra ai nipoti.

Il mondo del lavoro è altrettanto colpevole. L’Ocse stima che in Italia i laureati fra i 25-34 anni guadagno solo il 10 per cento in più dei loro coetanei senza una laurea. Per capirci, in Inghilterra il valore economico di una laurea è del 35 per cento e in Francia quasi il 45 per cento. Questo dato diventa molto preoccupante quando si scopre che, al contrario, i laureati italiani fra i 55-64 anni in Italia, hanno un “bonus” sui guadagni fra i più alti d’Europa, quasi al 65 per cento, mentre in Inghilterra non si va oltre il 45 per cento. Quindi il mercato del lavoro italiano penalizza i giovani e valorizza gli anziani, anche a parità di titolo di studio.

Gli expat hanno anche trovato una qualità di vita più alta all’estero – con grande stupore vista la convinzione degli italiani che l’Italia sia il miglior posto dove vivere al mondo. Eurostat conferma che la qualità di vita nel Bel Paese è tra le più basse in Europa: manchiamo di dinamismo culturale e sociale. Gli aneddoti si sprecano, dalla decadenza dei parchi pubblici a quella dei nostri teatri e centri storici. All’estero si investe e si rispetta la cosa pubblica.

Non i giovani emigranti hanno trovato una qualità di vita elevata, ma anche un contratto sociale più giusto. Società eque, con poca corruzione e nepotismo. Dove tutti pagano le tasse, che sono alte come o più che in Italia. Inutile dire che l’Italia è tra i peggiori paesi in termine di corruzione percepita, misurata da Transparency International. All’estero la meritocrazia funziona, e chi espatria ne beneficia.

Anche nell’evasione resta campione, con un tax gap del 13,5 per cento e più di 150 miliardi l’anno secondo gli economisti Raczkowski e Mroz. Considerando che il nostro deficit è di 40-50 miliardi di euro l’anno, in Italia sembra esserci un gruppo di furbetti che vive a spese di tutti gli altri, tagliando le gambe ai giovani di oggi e alle future generazioni.

La soluzione alla crisi: perché siamo necessari all’Italia
Nonostante la nostalgia per la terra, la preoccupazione delle famiglie e i dati sconcertanti, la fuga dei cervelli non è certo l’unico problema a cui fa fronte l’Italia. Anzi, ne è una conseguenza.

Basta pensare agli ultimi 25 anni. Negli anni ‘90, l’Italia aveva un pil procapite più alto dell’Inghilterra e si ritrova nel 2019 superata dalla Spagna. Siamo cresciuti del 7,5 per cento in 25 anni. Addirittura la Grecia è cresciuta più di noi (18 per cento).

Questa crisi infatti presenta un’opportunità unica: l’Italia ha un contingente enorme di giovani formati, che parlano lingue, con esperienze lavorative internazionali, che hanno imparato lavorando al fianco di leader mondiali nei vari settori, e che potrebbero risolvere – tornando – tanti problemi del bel paese.

Crisi economica: Un laureato che parte è una perdita pesante per l’Italia. Confindustria stima che una famiglia spende 165mila euro per crescere ed educare un figlio fino ai 25 anni. Mentre lo stato ne spende 100mila in scuola e università. Se prendiamo i dati ISTAT e li raddoppiamo (vista la discrepanza di dati) questo rappresenta una perdita di investimenti attorno ai €25-30 miliardi annui. Investimenti di cui beneficiano i nostri vicini tedeschi, francesi e inglesi, con tasse, innovazione e crescita.

Parlando appunto di tasse si calcola, partendo da dati Ocse ed Eurostat, che le casse del tesoro perdono 49 miliardi di euro l’anno di gettito fiscale, di cui più di 25 miliardi di euro dai laureati all’estero. Denaro che potrebbe coprire il nostro deficit annuale. Questo volume non considera tutto l’indotto dell’attività economica che sarebbe generato se i nostri giovani tornassero dall’estero.

Crisi lavorativa: Secondo Eurostat gli italiani hanno una vita lavorativa di circa 31 anni, in Inghilterra è di quasi 40. La nostra età pensionabile, però, è in linea con gli altri paesi europei, il che ci dice che il problema è all’ingresso: in Italia si comincia a lavorare troppo tardi, in media a più di 30 anni. Solo il 70 per cento degli italiani fra i 25-34 anni in Italia lavora, contro più dell’80 per cento dei paesi del Nord.

Gli expat quindi hanno esperienze di lavoro spesso più alte rispetto ai coetanei rimasti in Italia, e un loro ritorno rappresenterebbe una leva importante per innovare e importare nuove idee.

Crisi educativa e produttiva: Le competenze di giovani all’estero permetterebbero, nell’ipotesi di un ritorno in massa, di migliorare il gap di educazione che l’Italia ha nei confronti degli altri paesi europei. Secondo l’Ocse, l’Italia ha il più alto gap educativo tra emigrazione e immigrazione. In altre parole, esportiamo gli italiani più educati e importiamo gli stranieri che hanno studiato meno. Questo è estremamente dannoso per il futuro economico del paese dove invece di innovare in tecnologia, ingegneria, scienza e attività economiche “complicate”, ci si concentra su attività più semplici come ristorazione, turismo ed edilizia. Anche su questo i numeri parlano chiaro. La produttività dell’Italia, nona di 32 paesi Ocse nel 1995, è cresciuta in 25 anni del 6,8 per cento, il numero più basso di tutti e si ritrova oggi diciottesima.

Crisi demografica: Il rimpatrio, a giuste condizioni (stabilità e sostegno socio-economico), contribuirà a risolvere il preoccupante gap demografico, diminuendo il tasso di dipendenza ormai alle stelle. Secondo Eurostat, per ogni persona in età pensionistica, in Italia ce ne sono 2,8 in età lavorativa (16-65). La Francia e la Spagna ne hanno 3,3 e 3,4. È inutile chiedersi per l’ennesima volta “chi pagherà le pensioni nel futuro”. Però è importante ricordare che la ricchezza di tutti è creata da “pochi”, ossia da chi è in età lavorativa. Se continuiamo a spingere all’emigrazione i più produttivi fra gli italiani, non ci saranno speranze per mantenere il tenore di vita a cui siamo abituati.

Senza di noi non ce la possiamo fare: un appello al nostro paese e ai giovani all’estero
Un paese senza i suoi giovani è un paese senza futuro. Allora, come far rientrare gli expat?

Il sondaggio del centro studi di PWC ci dice che l’85 per cento dei giovani all’estero pensa che il paese in cui vivono offra migliori opportunità lavorative che l’Italia. Nonostante ciò, il 74 per cento considererebbe un ritorno a parità di condizioni. L’opportunità è chiara ed esiste.

L’Italia lo sa, e si sta muovendo per farci tornare: le città, le regioni e il governo stanno unendo le forze con imprese, associazioni ed università. Gli esempi non mancano: Milano ha lanciato ‘Talents in motion’, la regione Sardegna ‘Master and Back’, e al livello nazionale il decreto-legge sul rientro dei cervelli viene rinforzato continuamente per incentivarci a tornare, di cui la più recente modifica si trova nell’articolo 5 del decreto crescita del 28/5/2019.

Ma la verità è che queste agevolazioni fiscali sono poco conosciute dagli italiani che potrebbero usufruirne. Secondo il sondaggio del Gruppo Controesodo, il 21,43 per cento degli Italiani all’estero non la conosce e il 40,95 per cento la conosce solo vagamente. Viste le discrepanze di dati sugli italiani all’estero, sarebbe il minimo che le istituzioni cominciassero a raccogliere dati affidabili e ad assicurarsi che i loro giovani siano al corrente dei loro diritti.

Inoltre, dei pochi italiani che sono al corrente di queste agevolazioni, il 75 per cento non le considera sufficienti per rientrare. I dati lo dimostrano: dei 14.000 italiani rientrati tra il 2011 e il 2017 grazie alle agevolazioni, il 50 per cento è già ripartito. Perché?

Troppi ostacoli nell’accedere alle agevolazioni, che in più sono di corta durata. Allungare la durata dei benefici fiscali, oltre ai 5 anni, ed espandere i nuovi benefici a chi è tornato usufruendo di leggi antecedenti potrebbe raddoppiare il numero dei giovani pronti a tornare, secondo il Gruppo Controesodo. Questo sarebbe un punto di partenza per il Governo.

Ma sono ripartiti anche per le poche opportunità di crescita in Italia. La cultura lavorativa e l’attitudine del sistema verso i giovani sono i veri elementi che ci trattengono dal tornare a casa, o che ci spingono a ripartire. Investire fondi per l’impresa, la scienza, l’educazione è un inizio ed è necessario. Ma quello che serve è un cambiamento radicale di cultura lavorativa ed educativa, difficile da raggiungere ma che può succedere – se ognuno di noi se ne fa carico.

Quindi torniamo a noi, e usiamo una metafora: nelle comunità macrobiotiche, il 20 per cento della popolazione guida l’80 per cento dei flussi. Se torniamo sparpagliati, ci disperderemo, non troveremo chi ha avuto le stesse esperienze e ha quindi la stessa visione del futuro. Dobbiamo tornare insieme, in massa critica, ed aiutarci a vicenda con i tanti giovani che sono rimasti e già lottano.

Sta a noi combattere le ingiustizie e le inefficienze dell’Italia, salvare il Bel Paese cambiando quello che non va. Sta a noi ora tornare per consentire alla prossima generazione di immaginare un futuro, fin da subito, nel paese più bello del mondo. Quindi iniziamo da qua, dandovi degli spunti di riflessione ed invitandovi ad un dialogo che possa generare soluzioni e riportarci a casa.

Fonte

Redazione

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