In alcuni territori calabresi il fenomeno della occupazione delle terre, di cui ho trattato nel precedente articolo pubblicato su “Lameziaenonsolo” del mese di giugno 2019, tralignò trasformandosi in forme di rivolta anarcoide che con le rivendicazioni sociali nulla avevano a che fare. Basta far mente alle 5 giornate della cosiddetta “Repubblica rossa di Caulonia” dove l’insegnante elementare Pasquale Cavallaro, una specie di Masaniello in salsa calabrese, visionario e millenarista, militante comunista, creato sindaco di Caulonia nel 1944 dal prefetto di Reggio Calabria, Priolo, (a questa carica non si accedeva ancora tramite elezioni amministrative) si era messo alla testa di una sollevazione popolare che reclamava “la terra a chi la lavora”. Sostenuto dapprincipio dal partito comunista locale e provinciale, era stato in grado di eccitare a tal punto le masse da creare una vera e propria rivolta la cui fase di maggiore tensione durò dal 5 al 9 marzo 1945. Durante quei giorni venne “proclamata” appunto la cosiddetta “Repubblica popolare di Caulonia” con l’istituzione di un “esercito popolare” con compiti di difesa (non si capiva bene da chi bisognasse difendersi) e di “tribunali del popolo” che amministrassero la giustizia (per giudicare non si sapeva quali reati, sulla base di quali codici, e commessi non si comprendeva bene da quali imputati).
A quel punto, però, la “Repubblica di Caulonia” venne abbandonata al suo destino anche dal Partito comunista, che ben presto si era reso conto che quanto stava verificandosi nella cittadina regina apparteneva alle più pericolose forme delle utopiche ed incontrollate insurrezioni popolari che erano in totale conflitto con il progetto politico dei comunisti, nel cui seno andava prendendo corpo una “via italiana al socialismo”, che prevedeva l’allargamento delle alleanze con alcuni partiti borghesi (i cattolici della Dc in primis) e quindi la possibilità per il partito comunista di conquistare il potere non con la lotta armata (come invece prevedeva la strategia di Secchia ed altri dirigenti stalinisti) bensì attraverso il democratico e legale metodo parlamentare [lo stesso Togliatti aveva qualificato come “volgari provocazioni” le azioni del sindaco comunista Cavallaro].
Isolata politicamente ed assediata da un imponente dispiegamento di forze dell’ordine, la rivolta di Caulonia si estinse miseramente, lasciando però sul terreno un morto e cioè il parroco di Caulonia stessa, don Gennaro Amato. Per questo delitto sarebbe stato accusato quale mandante il medesimo Pasquale Cavallaro. Successivamente si tennero i processi nei quali molti di coloro che avevano partecipato all’avventurosa sommossa furono incriminati e condannati dal tribunale di Locri con l’imputazione di “costituzione di bande armate, estorsione, violenza a privati, usurpazione di pubblico impiego, omicidio ecc.”.
Nel clima di lotte e tensioni, di scontri e di disagio morale e materiale di cui era satura la società meridionale, con rovine, miserie e lutti disseminati dappertutto, accadde – sorgendo dal seno del Sud più profondo, la Calabria – un fatto nuovo ed imprevisto: gli arcivescovi ed i vescovi dell’Italia meridionale sottoscrissero una “Lettera collettiva” avente per oggetto “I problemi del Mezzogiorno” attraverso la quale prendevano pubblicamente posizione sulle condizioni in cui versavano le regioni del Sud sia dal punto di vista religioso ed etico che materiale. Era la prima volta che ciò succedeva ed era la prima volta che i Pastori delle chiese delle regioni più emarginate, povere e deprivate dell’Italia intervenivano per far sentire la voce della Chiesa sulle questioni sociali di quella vasta area della Nazione.
L’ideatore ed estensore diretto e materiale della Lettera collettiva era stato mons. Antonio Lanza, il colto e intraprendente arcivescovo di Reggio Calabria. Il quale, dopo averla redatta, l’aveva sottoposta all’approvazione e sottoscrizione degli altri confratelli arcivescovi e vescovi. La lettera, pubblicata il 25 gennaio 1948, domenica di Settuagesima, come ho ricordato nel precedente articolo, non ebbe purtroppo la fortuna che avrebbe meritato. Non tutti i vescovi del Meridione vollero firmarla. “Nessun vescovo della Sicilia, per esempio, la firmò per l’opposizione – come ha scritto lo storico Pietro Borzomati – dell’arcivescovo di Palermo, card. Ruffini”. “La stampa, così Borzomati, compresa quella d’ispirazione cattolica, dedicò alla lettera solo brevi commenti”.
Ma, chi era questo giovane, coraggioso e colto prelato che aveva concepito con spirito tanto moderno, per quei temi, la lettera formulandola in modo altrettanto profetico? Chi era mons. Antonio Lanza? Arcivescovo di Reggio Calabria e vescovo di Bova era nato a Castiglione Cosentino (Cosenza) il 18 marzo 1905. In seguito al decesso dell’arcivescovo metropolita di Reggio, Enrico Montalbetti, morto durante un bombardamento alleato a Melito Porto Salvo, venne nominato vescovo, a soli 38 anni, il 12 maggio 1943 e consacrato il 29 giugno dello stesso anno. A 22 anni, il 16 aprile 1927, era stato ordinato sacerdote e, subito dopo, aveva cominciato ad insegnare a Roma presso l’Università Lateranenze. Fu Presidente della Conferenza Episcopale Calabra, “carica che gli consentì di promuovere una costante ed importante azione collettiva dell’episcopato regionale a favore del Sud. La sua azione pastorale contribuì allo sviluppo della formazione cristiana e della vita spirituale della Calabria”. Fu autore, tra l’altro, di “Ricostruzione della famiglia: saggi e studi”, 1943; “Attualità del Cristianesimo”, 1944; “La vita rurale nel Vangelo”, Relazione che tenne alla XXI Settimana Sociale dei Cattolici che si svolse a Roma dal 21 al 28 settembre del 1947; “Pio XII, il Pontefice della Persona umana”, 1950. Nel 1947 fondò il settimanale L’Avvenire di Calabria, che si pubblica ancora oggi. Dopo appena sette anni di episcopato, a soli 43 anni, il 23 giugno 1950, morì, improvvisamente, a Reggio Calabria.
Il cardinale Pietro Palazzini, che di Lanza fu discepolo, avrebbe più tardi ricordato che “alla base del servizio episcopale dell’arcivescovo sta zelo intelligente, instancabile ed operosità pastorale”. A proposito della Lettera collettiva del 1948, il medesimo cardinale annota che “il documento [….] impegnò l’episcopato meridionale in una precisa presa di posizione anticipatrice, orientatrice, stimolatrice della politica meridionalistica dei governi democratici della Repubblica” e “rilevò quanto in mons. Antonio Lanza fossero chiari i problemi sociali [….], quanto fossero chiari alla sua coscienza e alla sua intelligenza i reali problemi della società meridionale”.
In effetti, la Lettera collettiva, non solo risultava moderna nell’analisi dei mali del Mezzogiorno ed innovativa rispetto alle auspicate soluzioni dei problemi della “specifica” realtà della società meridionale di “quel tempo”, ma entrava in sintonia e si riallacciava, nei suoi contenuti più profondi, ma anche nello stile e nella impostazione formale, ai documenti sociali pontifici che fino a quel momento erano stati prodotti dal Magistero ecclesiale ed avevano dato vita al primo nucleo della Dottrina Sociale della Chiesa: la lettera enciclica “Rerum novarum” (sulla condizione operaia) di Leone XIII del 1891; la “Quadragesimo anno” di Pio XI del 1931 (emanata nel quarantesimo anniversario della Rerum novarum); il “Radiomessaggio di Pentecoste” di Pio XII del 1941 (diffuso nel cinquantesimo anniversario della R.N.).
Alla lettera collettiva lanziana avrebbero, successivamente, fatto riferimento sia il documento della Conferenza Episcopale Italiana del 18 ottobre 1989 specificatamente riferito alle problematiche dell’arretratezza del Mezzogiorno: “Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà”, che il successivo, più recente, convegno sul Mezzogiorno promosso dal cardinale Crescenzio Sepe e dai vescovi delle regioni meridionali, “Chiesa nel Sud, Chiese del Sud. Nel futuro da credenti responsabili” tenutosi a Napoli nei giorni 12-13 febbraio 2009.
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