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Guardare la malattia è la vera sfida di oggi

L’incontro della scuola di dottrina sociale svoltosi presso la sala “Ferrante” dell’ospedale di Lamezia Terme

di Saveria Maria Gigliotti

“L’obiettivo di questo quattordicesimo anno della scuola è quello di cercare di mettere in atto quello che Papa Francesco ci chiede: una chiesa in uscita. Testimoniare una fiducia che diventa fede in questi luoghi. Costruire un ospedale da campo come ci suggerisce il Santo Padre”. Così il vescovo della Diocesi di Lamezia Terme, Giuseppe Schillaci, nel concludere il primo incontro della Scuola-laboratorio di dottrina sociale della Chiesa svoltosi nella sala “Ferrante” dell’ospedale di Lamezia Terme con tema la “Presenza e cura del malato” su cui ha relazionato Vincenzo Antonelli, docente di Diritto Amministrativo dell’università Cattolica del Sacro Cuore.
Ad apertura dei lavori, Il direttore dell’ufficio Diocesano di pastorale sociale del Lavoro, don Fabio Stanizzo, ha evidenziato che “essere presenti come Chiesa nei luoghi significativi come l’ospedale, l’azienda è il tribunale, è l’obiettivo del nuovo percorso della scuola di dottrina sociale della Chiesa, secondo le provocazioni di Papa Francesco nel messaggio al IX Festival della dottrina sociale che ci hanno portato a scegliere, come tema di quest’anno per la scuola, “essere presenti nella comunità”, in quanto “è bello pensare ad una presenza diffusa che abita tutti i luoghi, porta tenerezza e opera come lievito”. Antonelli, dal canto suo, ha rimarcato che “portare la Scuola di dottrina sociale in ospedale, nelle scuole, in tribunale e nelle aziende è un passo importante perché significa andare in mezzo alla gente, nei luoghi di vita quotidiana. Nell’articolo 32 della Costituzione – ha aggiunto – si parla della dignità umana e questo significa che l’ospedale nella sua organizzazione, i medici e gli operatori sanitari nella loro attività devono rispettare non il malato ma la persona malata. Papa Francesco mette in risalto due aspetti: bisogna passare dalla cura al prendersi cura. La cura e terapia, è la dimensione clinica, mentre il prendersi cura è altro. E poi bisogna passare dal malato alla persona malata, nel senso che il malato porta con sé tutta la sua dimensione. Presenza – ha affermato – è prendersi cura della persona malata. Il piano della fede, il piano ecclesiale non è disgiunto dal piano terapeutico e sociale. La dimensione clinica non può essere vista da sola, ma insieme al piano sociale e religioso. La cura è un fatto sociale. Il Vangelo dovrebbe educare alla malattia. Al medico chiedo alla cura, a Cristo la guarigione. Per il docente universitario “la dimensione evangelica e quella dell’incontro, cioè della presenza. Essere presenti vuol dire incontro. La malattia è una dimensione di Fede. E’ impegnativo stare vicino ad un malato. Ci sono malattie che distruggono le famiglie, distruggono dimensioni affettive. Dovremmo domandarci cosa faccio io quando incontro la malattia. E cosa fa la mia parrocchia, la mia Diocesi per i malati. Il medico è custode della dignità del malato. L’obiettivo e di fare sentire il malato una persona e non un numero. Oggi – ha proseguito – la relazione di cura è molto difficile perché è venuta meno la fiducia. Fiducia, affidamento e Fede. La relazione terapeutica è una relazione basata sulla fiducia. Solo se io ho fiducia nell’altro io mi posso affidare all’altro. Il medico può acquistare la fiducia del malato se abbandona la cura e passa al prendersi cura, se dedica del tempo, se lo rende consapevole. La presenza permette di vedere l’altro e di essere visti da lui. Vi prescrivo due farmaci: la fiducia e i valori. La malattia è la cura sono un fatto sociale riguardano la società nel suo complesso. Il ruolo della società è quello di non produrre scarti, il malato è a rischio scarto. Il malato lo scartiamo, rimaniamo indifferenti, non accogliamo ed escludiamo. In quanto comunità – ha concluso Antonelli – quanto consideriamo il malato uno scarto? E’ questo l’interrogativo con cui vi lascio. “La vera sfida è aprire gli occhi per vedere dove sono i malati”.


Articolo pubblicato sull’Avvenire dell’11 febbraio 2020

Redazione

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