di Giovanna De Sensi Sestito*
Ogni città ha un territorio organizzato in quartieri nelle aree urbane e in numerose località nelle aree rurali, tutti contraddistinti da propri nomi: sono i toponimi (nomi dei luoghi) che identificano sulle mappe catastali rurali e urbane le varie parti del territorio. Tutti i toponimi, a cominciare da quelli delle stesse città, hanno avuto origine in tempi più o meno remoti. Ad identificare e delimitare porzioni di territorio concorrono i nomi di fiumi, torrenti, sorgenti, di particolari colture agricole o tipologie di alberi e arbusti, di attività economiche come mulini, forge, e l’elenco potrebbe essere molto lungo. È nell’esperienza di tutti il particolare valore identificativo che hanno assunto nel tempo chiese e monasteri e lo conservano ancora oggi per noi cittadini di Lamezia Terme; l’Abbazia di Sant’Eufemia o l’antica chiesa di San Biagio sono diventate denominazioni comunali; per fare qualche altro esempio, le chiese di S. Francesco o del Carmine a Sambiase, di Santa Lucia, di Sant’Antonio o di San Domenico a Nicastro identificano per noi precise zone del comprensorio urbano. Ed è incredibile quanto sia antica la stratificazione di tanti altri nomi di luoghi che si può rintracciare nei documenti storici: codici, diplomi, mappe catastali storiche, visite pastorali, storie locali. Analizzando questo tipo di documentazione si può ricostruire la storia di un toponimo. Propongo brevemente in questa sede la riflessione promossa dalla Parrocchia della B.M.V. Addolarata (che tutti ancora chiamiamo “della Pietà”) nel mese di febbraio sul toponimo San Miceli, che identifica il rione ad occidente del ponte sul torrente Piazza, con il quartiere di Bella a nord e la località Cavallerizza a sud.
Storicamente questa parte di territorio apparteneva alla chiesa di Santa Maria di Nicastro (poi denominata Santa Maria la Grande, Santa Maria Maggiore, ora ‘ospitata’ nella chiesa di San Francesco), tant’è vero che risale al 1971 il decreto prefettizio che ha sancito la cessione alla chiesa della Beata Maria Vergine Addolorata della Pietà dei terreni su cui questa sorge. Ma la chiesa di Santa Maria di Nicastro con tutte le sue pertinenze, per volere di Roberto il Guiscardo era stata donata alla nascente abbazia benedettina di Santa Maria di Sant’Eufemia, come sta scritto nel suo diploma di dotazione del 1062, conservato gelosamente e trascritto in atti notarili (e poi dagli storici), perché fondava i diritti di possesso dell’abbazia (e del baliaggio dei Cavalieri di Malta) su gran parte del territorio della piana, fatti valere nelle ricorrenti controversie con la Diocesi.
Non è documentato quando nelle terre di Santa Maria di Nicastro, al di là del ponte sul torrente Piazza, all’incrocio della via che portava a San Biase con una via «di terra» che andava alla montagna, fu fondata una chiesetta intitolata a San Michele Arcangelo. Era questo un culto antichissimo, ma erano stati i Longobardi a diffonderlo in Italia, e rimase molto praticato anche dai Normanni. È plausibile che nel Lametino questo culto risalisse al Guiscardo e alla nipote Eremburga signora della città di Nicastro, figlia del conte Drogone della famiglia normanna degli Altavilla che aveva sposato una principessa (longobarda) di Salerno. A quell’epoca rimanda la tradizione ancora viva tra gli anziani del quartiere, ma trovata e registrata da Pasquale Giuliani nelle sue Memorie storiche della città di Nicastro (1867, 2a ed. 1893, p. 26 s.), su un cippo incorporato nel muretto di cinta della chiesetta, collegato all’arrivo di Papa Callisto II a Nicastro nel 1121 per inaugurare la Cattedrale fatta costruire appunto da Eremburga.
In ogni caso la presenza della chiesetta di «San Michele Arcangelo» sulla via per Sambiase è registrata con continuità in documenti diversi dal 1600 in poi: oltre che nella visita pastorale di Mons. Perrone fatta nel 1640, dopo il disastroso terremoto del 1638, figura nel Regesto Vaticano nr. 27722 del 1616; nel Bollario dell’Archivio diocesano, vol. I foglio 1780 del 1638 e II, foglio 1271, del 1716, come hanno annotato Pietro Ardito (Spigolature storiche sulla città di Nicastro, 1889, pp,) e Pietro Bonacci ( S. Teodoro, antico rione di Nicastro, 1984, p. 52 s.)
La presenza della «chiesa di San Michele» e la denominazione dialettale di «Santu Miceli» o «San Miceli» assunta dalla zona circostante risulta ampiamente documentata nel Catasto onciario delle città di Nicastro e di Sambiase, scrupolosamente compilati nel 1746 a seguito della disposizione emanata da Carlo III di Borbone nel 1740 per regolare la fiscalità del regno di Napoli. A quel tempo la chiesetta ricadeva nella località che da essa aveva assunto il nome di «S. Miceli», dove il magnifico don Francesco Antonio Serra di Nicastro di anni 54 (scheda nr. 376) possedeva sei tomolate di terra con uliveto e bosco, su cui pagava alcuni censi perpetui. Anche il magnifico Antonio Di Sensi di Nicastro di anni 45 (scheda nr. 119) possedeva una tomolata di terreno «in luogo S. Miceli». Ben più ampie proprietà possedeva sulla «Strada di San Michele» il magnifico Don Gaspare Di Fiore di Sambiase (scheda nr. 379): case con trappito e stalle, orti, bassi e camere dati in fitto, e soprattutto come censo assicurava alla chiesa di S. Michele quattro messe settimanali, il mantenimento della sacrestia e la festa di S. Michele. Il ruolo importante di censuari del baliaggio di Sant’Eufemia che le casate dei Serra e dei De Fiore avevano già da molto tempo risulta dalla Platea dell’Abbazia di Sant’Eufemia (1626), dove Gioanne Antonio Serra di Nicastro figura come «torriero» di Santa Caterina e gli eredi di Donna Francisca Serra coltivavano molte terre dell’Abbazia, come i numerosi eredi di Annibale De Fiore di Sambiase (Gianfrancesco, GianAntonio, Ferrante, Giacomo, Lelio).
Solo nel corso del 1700, con l’esplosione del culto mariano dopo il Concilio di Trento, prevalse per la chiesetta la denominazione di «chiesa di Santa Maria della Pietà»: e poi solo «chiesa della Pietà»: a cominciare dalla visita pastorale di Mons. Angeletti nel 1726, di Mons. Paolino Pace del 1769, di Mons. Barbieri del 1855, ma già anche nei documenti della Cassa Sacra (1790). Don Giancarlo Leone ha riportato la maggior parte di questi dati nel libro La Pietà (Lamezia Terme 2014), dedicato all’attuale chiesa parrocchiale, da cui ho ripreso le foto della chiesetta, prima e dopo il restauro, e degli affreschi realizzati da Padre Nathanael Theuma, un artista maltese molto affermato.
Sarebbe comunque bastato leggere le storie patrie di Pasquale Giuliani e Pietro Ardito per non incorrere nella sostituzione della storica e significativa denominazione di «Via S. Miceli» con quella erronea e inutilmente dissacrante di «Via Salvatore Miceli» che da qualche anno le è stata attribuita. Per rispetto alla memoria storica della comunità è doveroso porvi rimedio, un rimedio tanto urgente quanto semplice: basta lasciare «Via S. Miceli», come s’è sempre detto e scritto, ed esplicitare sotto la forma italiana: (San Michele). Non credo ci sia bisogno di alcun intervento del Prefetto per lasciare il nome qual è. Abusivo era il nome ‘Salvatore’ introdotto per sbaglio, e nessuno da qui ad un anno lo ricorderà più, neanche i postini.
*Professore ordinario di Storia Greca presso l’Università degli Studi della Calabria