Forza economica, funzione sociale e tutela ambientale
Di Claudio Cavaliere(*)
Le ventitré carte idrografiche della Calabria del 1887, redatte sulla base dello stato esistente intorno al 1880, sembrano avere la varicella per come sono piene di puntini rossi.
Ad ogni puntino rosso, localizzato lungo le aste fluviali, corrisponde un opificio, come informa la legenda.
E quasi sempre questi puntini si addensano, uno dietro l’altro, a volte a decine nello spazio di qualche chilometro.
Cosa sono questi opifici? Sono le centinaia, le migliaia di mulini calabresi che utilizzavano la forza motrice dell’acqua per battere, triturare, sminuzzare, frantumare, macinare, segare, follare.
Durante la fase dura del lockdown l’unica possibilità di fare due passi era il vecchio sentiero che si diparte alle spalle del castello di Nicastro lungo il torrente Canne. In meno di un chilometro verso nord ben cinque mulini ad acqua sono ancora visibili.
Tre sono ruderi; di uno è quasi completato il restauro ad opera di un privato che ha deciso di ripristinarne l’antica funzione; uno è proprietà comunale, restaurato e poi abbandonato come spesso avviene per i beni pubblici.
Il destino dei tre ruderi è quello comune alla stragrande maggioranza dei vecchi mulini calabresi di cui, nella maggior parte dei casi rimangono solo poche mura e le loro grandi macine, se non giacciono sotto le macerie, a volte le ritrovi in qualche giardino di case private utilizzate come grandi tavoli.
Difficile non trovare in Calabria un qualche toponimo di luogo che non rimandi a quel tempo. In quasi tutti i comuni calabresi troviamo ancora oggi una via o sentiero “dei mulini”, strade che generalmente diventano mulattiere che si perdono in rigogliosi e impenetrabili muri di spine e di verde che spesso avvolgono completamente i resti dell’antico fabbricato. Praticamente impossibile non imbattersi nei resti di qualche muro sbrecciato se si risale un qualunque corso d’acqua della regione.
Eppure è sorprendente che la nascita di questa straordinario strumento sia avvenuto proprio in uno dei luoghi apparentemente meno adatti, il bacino del Mediterraneo, dove le estati lunghe e siccitose che prosciugano i corsi d’acqua, potrebbero far pensare all’ultimo posto dove utilizzare in maniera costante l’energia idraulica.
Ma la definizione più bella che ho finora incontrato di Mediterraneo è quella che lo definisce “una macchina che produce civiltà” ed anche in questo non si smentisce.
In Calabria la più antica menzione documentaria dei mulini idraulici sembra risalga ad alcuni registri bizantini che si riferiscono alla vallata dello Stilaro a poco dopo l’anno mille. È del 1059, la donazione al monastero di San Lorenzo (uno degli oltre 30 centri religiosi attivi nel comprensorio), di un mulino in località “Panari” i cui ruderi sono ancora presenti.
I monaci, nella vallata dello Stilaro e nelle Serre Calabre, si impegnarono particolarmente nella costruzione di forge con magli azionati con l’utilizzo dell’energia idraulica, e furono i pionieri nell’impiego di tale forza nella metallurgia e nella siderurgia, per azionare i mantici e per frantumare i minerali, e tra questi i “mulini per il ferro”. Questi, uguali in tutto e per tutto a quelli utilizzati per macinare il frumento, venivano utilizzati per frantumare il minerale prima che questo fosse introdotto nei “forni” fusori.
Uno di questi, unico esempio del genere in tutta l’Italia peninsulare, fu costruito, nei pressi di Bivongi, nel lontano 1274. Esso fu ubicato nelle immediate vicinanze di un “forno fusore”, già attivo lungo il corso del fiume Stilaro, nella località “Argalia” che con il proprio toponimo sta ad indicare “il luogo dove batteva il maglio”. Il mulino, a quell’epoca, e sino a tutto il XVI sec., veniva utilizzato, per la frantumazione del minerale d’argento, estratto dalla vicina miniera detta appunto “argentera” dalla quale si estraeva la galena (piombo argentifero).
Per la presenza di tale mulino, e del vicino forno di fusione, la località sulla quale insisteva, venne denominata appunto, e lo è tuttora, “Mulinu do Furno” (mulino del forno).
Già nel 1100 i mulini ad acqua sono oramai diffusi in quasi tutta la regione e per altri sette secoli sono protagonisti dell’economia e delle vicende sociali dei territori.
Solo dopo l’Unità d’Italia con l’introduzione nel 1868 della tassa sul macinato si apriva la crisi dei mulini idraulici. La tassa sulla macinazione provocò agitazioni e rivolte contadine e mise in crisi i mulini più antiquati, specie quelli piccoli e rurali determinandone la chiusura a causa della sproporzione tra l’onere fiscale e la loro modesta produzione legata essenzialmente ad un consumo locale.
Una storia completa e approfondita ancora non esiste e sono sicuro riserverebbe molte sorprese e aprirebbe scenari nuovi e originali per la storia della regione.
Quel che non mancano sono proverbi, fiabe, detti, racconti etnografici che hanno come protagonista il mulino o il mugnaio a conferma della centralità nel vissuto collettivo del loro tempo.
Del resto sono luoghi che incantano ancora oggi quando si ha possibilità e il privilegio di visitarne qualcuno ancora in funzione.
Tutti quei suoni di legno che scricchiola, di meccanismi che girano, di acqua che scende, oltre al luogo in cui generalmente è posto, non possono che esercitare un indiscutibile fascino.
(*) Sociologo – scrittore
Foto di Giuliano Guido
Una risposta
[…] Sette secoli di Mulini a pietra di Calabria […]